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Maggio 2006
Otto anni fa decisi di rilevare quell'ormeggio distrutto sul fiume Morea per farne un favoloso marina turistico. Il progetto era ambizioso e non privo di difficoltà, ma ero piena di entusiasmo e fiduciosa nelle mie capacità.
Non ero consapevole, allora, che stavo per pestare i piedi a qualcuno o, dovrei dire, a qualcosa più grande di me.
PROLOGO
8 Gennaio 2002
Oggi vorrei riavvolgere il nastro della mia vita e tornare indietro di vent'anni.
Se questo fosse possibile, probabilmente sarei una scrittrice, una musicista o una cantante, attività per le quali ero portata e che mi sono sempre piaciute. Non è stato così.
Qualcuno ha detto: «Se vuoi vivere bene, decidi cosa ti piace fare, poi fallo». Belle parole, difficili da mettere in pratica. Ci vuole coraggio a credere nelle proprie scelte e portarle avanti ad ogni costo. Molto più che a sottostare alle decisioni altrui e, in caso di fallimento, poter dire: «non è stata colpa mia».
Mi è mancato il coraggio fino a questo momento. Ora è tutto diverso. Mi siedo davanti al computer, la luce dello schermo illumina la mia faccia. Vado al centro della pagina vuota, scrivo: FELICITUDINE di Viola Ferrario. Il mio primo romanzo, una cosa che desideravo fare da sempre.
Le dita volano sulla tastiera, le parole si scrivono da sole e io soffro, mi diverto, rido, mi commuovo, mi arrabbio: mi piace da morire. Sono quasi le nove di sera, il delirio dello scrittore mi ha fatto saltare anche la cena. Squilla il cellulare, dal numero vedo che si tratta di Alessandro, il mio ex-fidanzato.
«Uhm...». Medito se rispondere o meno. Non vedo cos'abbia da dirmi a quest'ora mentre si trova in ferie con la nuova ganza. Non si è fatto sentire nemmeno per Natale.
Dopo dieci insistenti squilli, vince la curiosità. Premo il tasto verde. «Ciao Alessandro».
«Mi hanno appena chiamato i vigili del fuoco», dice. In sottofondo un tintinnio di chiavi e lo sportello dell'auto che sbatte. «Pare che al marina ci sia qualche problema».
«Che problema? Che c'entrano i vigili del fuoco?».
«Non lo so, mi hanno detto solo di andare ad aprirgli subito il cancello perché stanno lavorando con le autopompe dalla recinzione sulla strada».
«Ha preso fuoco qualcosa?».
«Non ho idea. Ti aspetto lì». Riaggancia senza darmi modo di fare altre domande.
Con le gambe che mi tremano e lo stomaco accartocciato, m'infilo scarponi, piumino e sciarpa sopra al pigiama e afferro la borsa. Rocco comincia a scodinzolare felice per la frizzante passeggiatina notturna. «No Rocco, non ti porto da nessuna parte. Vai a fare la cuccia da bravo».
Mi butto fuori casa lasciando il computer acceso e senza dare le mandate al portoncino. C'è un buio cattivo, fatico a inserire le chiavi nel cruscotto, tanto mi tremano le mani. Mentre guido come una pazza verso il marina, continuo a chiedermi perché siano intervenuti i vigili del fuoco. È inverno, fa un freddo birbone, non ci sono contadini nei campi vicini che ripuliscono e bruciano sterpi. Le barche sono a terra da mesi, batterie staccate, tutto spento. Cerco di convincermi: è successo qualcosa lì vicino, non si tratta del mio marina; magari fosse così.
Non c'è tempo per altre riflessioni. Cinque minuti e sono lì. Già dalla strada sterrata, a un centinaio di metri dal cancello d'ingresso, intravedo un chiarore insolito. Due pattuglie di carabinieri mi fanno cenno di accostare.
«Sono la proprietaria!», urlo dal finestrino senza alzare il piede dall'acceleratore.
Faccio un rocambolesco slalom in mezzo alle due gazzelle, mentre quelli si sbracciano, scendo dalla macchina ancora in moto, libero il cancello da catena e lucchetto.
«Non può stare qui. È pericoloso», intima uno dei carabinieri raggiungendomi col fiatone.
«Sono la proprietaria», gli strillo sul muso. Corro nel buio verso due enormi autobotti che sputano acqua dalla strada che costeggia la recinzione. Mi sbraccio: «Sono qui. L'ingresso è aperto. Venite, presto!».
Confusione di uomini e mezzi, un muro di fuoco, fumo denso e appiccicoso, non riesco a respirare. Rumore di macerie che cadono, un boato lacerante mi sfonda lo stomaco, inciampo, mi rialzo, continuo a correre. «Da questa parte. È aperto!». Non mi sentono. O, forse, credo di urlare, ma la mia gola non emette alcun suono. Un altro scoppio, seguito da urla di allarme degli uomini al lavoro. Conto almeno una decina di divise nere con strisce gialle catarifrangenti in precario equilibrio su autoscale sbracciate sul mare di fuoco. Altri stendono chilometri di manichette, le allacciano, le azionano. Ogni lancia è retta da almeno due pompieri e sussulta e sgroppa come un cavallo impazzito.
La mia mente è annebbiata di fumo, terrore e angoscia. Mi accascio in mezzo all'erba, sento l'umido della notte sui vestiti. Non sono fisicamente lì, ma seduta sulla poltrona di un teatro tappezzato di caldo velluto rosso. Sto assistendo a una tragedia greca: Troia data alla fiamme dai suoi nemici, dramma spaventoso e affascinante del quale sono la regista. Mi soffermo rapita a studiare la reazione di ogni singolo elemento alle fiamme: resina deformata, scoppiettante borbottio di plastica e gomma che brucia le narici, narcotizza il cervello; laminati, tessuti, fibre di vetro e gommapiuma che sfrigolano con suono sinistro accartocciandosi l'una sull'altra. Cade a terra l'acciaio di àncore, tientibene e bitte. L'incandescenza raggiunge il cuore degli scafi martoriati ed esplode assordante scuotendomi le viscere. È magia e violenza, e io sto lì, sul prato fradicio, spettatrice di una tragedia annunciata.Io ho acceso io la miccia, con la mia caparbietà e la mia sete di giustizia. Ho resistito, lottato, perfino aggredito e morso un mostro col quale non potevo competere. Lui si è vendicato sputandomi addosso fiamme.
Lacrime calde rigano la fuliggine sulle mie gote. Sono delusa da questo posto, dalla gente che ci vive, dalle istituzioni locali, dalle forze dell'ordine, dalla giustizia italiana. Chiacchiere, promesse, rassicurazioni... Un rigurgito acido mi sale in gola.
Scoppia un altro serbatoio e il comandante dei vigili del fuoco mi invita ad allontanarmi. Mi rifugio in ufficio, in cerca di calma e fazzoletti di carta. La luce al neon è impastata di fumo e odore di vetroresina bruciata. Cerco di tornare in me, fare il punto della situazione, ma qualcuno bussa alla porta. Col dorso della mano mi asciugo la faccia, cerco di ricompormi. Il tizio in divisa nero-gialla mi comunica che per stilare il rapporto d'intervento il comando ha bisogno di una serie di documenti entro domattina.
'Fanculo i documenti, vorrei solo sparire, premere un pulsante ed essere di nuovo a Torino: il mio ufficio dirigenziale, simpatici colleghi con i quali fare quattro chiacchiere prima di iniziare la giornata. Riunione, pausa caffè, altra riunione; domani conferenza stampa, comunicati e foto sono già pronti, devo trovare un abito adatto, tailleur, elegante e femminile ma sobrio. Tacchi alti, d'obbligo. Mi faranno sicuramente male i piedi. Abbasso lo sguardo sugli scarponi grondanti fango, cenere e minacce. Torino è un remoto ricordo di insoddisfazioni infondate. Soffoco, devo uscire.
Torno a controllare come procede lo spegnimento. Sono arrivati altri mezzi: sparano schiuma anziché acqua. Un pappone nero, alto e scivoloso avvolge metà del piazzale, si avviluppa ai miei polpacci; le due e un quarto, sono quasi cinque ore che uomini e mezzi stanno combattendo il fuoco.
Tiro fuori un pezzo di carta e una penna che mi sono messa in tasca prima di uscire dall'ufficio. Con mano tremante comincio ad annotare nomi su nomi. Un paio di mucchietti di cenere non riesco proprio a identificarli, pian piano ci arriverò per esclusione. Al termine del mio giro di perlustrazione conto diciassette morti, tre feriti gravi e due lievi: una strage da centinaia di migliaia di euro.
Sono da poco passate le tre. Qualche vigile del fuoco, armato di pala, si aggira ancora intorno alle macerie fumanti rivoltando i punti dai quali continuano a provenire fiammelle. Fra due ore sarà giorno, allora sì scoppierà il vero marasma. Devo trovare il modo di sminuire la faccenda. Ecco, dirò che si è trattato di un incidente: imprevedibile, impensabile, un puro caso. Devo far sparire tutto, coprire, spazzare via qualunque traccia di quel che è successo. «Signora Ferrario, può seguirmi, per cortesia?», mi chiama da parte il giovane maresciallo col quale ho parlato poco prima. «Si sentirebbe più tranquilla, se le offrissi protezione?».
Mi viene da piangere. «Perché non arresta quei criminali invece?».
«Ci vogliono le prove».
«Dice bene lei. Intanto ci sono io qui, a combattere tutti i giorni». Un boato interrompe la nostra conversazione, l'ennesimo serbatoio esploso. I vigili del fuoco ci ordinano di allontanarci.
Ore cinque. Albeggia. Mentre guido verso casa, un terrore di piombo mi pesa sullo stomaco. Nella fretta di correre al marina mi sono sbattuta la porta alle spalle senza chiudere a chiave. Immagino fiamme che escono dalle finestre, la facciata annerita, i vicini che accorrono in strada, Rocco terrorizzato che abbaia e scappa da una stanza all'altra soffocato dal fumo. Un dolore lancinante mi costringe a portarmi la mano al petto. Sono i cinque minuti più lunghi della mia vita.
Svolto nella stradina dalla quale in lontananza s'intravede casa mia. Il rustico è lì, buio e silenzioso, le imposte chiuse come palpebre in un placido sonno. Apro la porta, Rocco mi viene incontro scodinzolante e festoso. Mi ci butto addosso: «Amore mio, eccomi – lo abbraccio e piango lacrime di felicità, – non ti ho lasciato, no... La mamma ha avuto qualche problemino da risolvere ma adesso è qui». Il mio nerone peloso non la smette più di zampettarmi addosso, baciarmi, leccarmi via le lacrime dalla faccia. Gli dò uno dei suoi biscotti preferiti, lancio in un angolo il pigiama, impiastrato di fuliggine e schiuma nera, che indosso dalla sera prima, mi butto sotto la doccia.
Non ho tempo per riposarmi o dormire, devo tornare subito al marina e continuare a lottare.



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